giovedì 7 giugno 2007

Il Grassone





Il grassone camminava dondolando su e giù per il lungo corridoio. Camminava e pontificava. Pontificava su tutto. Sulle donne, sul lavoro, sui soldi, sui giovani e sui vecchi. Le sue gambe erano due maiali, due agnelli da kebap. I suoi vestiti erano lisi e consunti, il suo aspetto trascurato ma non troppo. Era solo, il grassone, lo si vedeva dalla disperazione nei suoi occhi quando era ora di tornare a casa. Tornare nel suo appartamento ex casa popolare, acquistato dopo anni di solitudine e lavoro. Due camere e cucina. Arredamento disordinato e minimalista. Accostamenti raccapriccianti tra mobili in formica e vecchi complementi d’arredo in noce eredità di famiglia. Un frigo ventennale colmo di pre-cotti e buste d’affettati del discount.
Camminava davanti a me in mezzo agli uffici deserti. Le porte chiuse, le luci spente, i telefoni muti, l’assenza di ogni rumore anche quel fastidioso taccheggiare della segretaria del manager. Solo io e il grassone. Il mio incedere silenzioso alle sue spalle ed il suo ansimare disperato alla ricerca di qualcuno da ammorbare per concludere un’altra giornata prima di tornare alla solitudine. Prima di tornare alla tv, al telegiornale, ai commenti in solitaria delle notizie di cronaca, a fissare il telefono sperando nella telefonata di qualche vecchio amico di qualche lontano nipote.
Il grassone era ora di fronte all’ultimo ufficio, la mano corta e grassa sul pomello che non rispondeva alla pressione. Il suo voltarsi stancamente, il suo imprecare perché tutti a quell’ora erano già altrove, a casa con le loro famiglie, in palestra, al ristorante con gli amici, tutti, nessuno che come lui fosse lì a fare dell’inutile straordinario. Poi un lampo un sussulto nel vedermi. L’accenno di un sorriso, la piccola gioia di non scoprirsi solo. La voglia d’esternare, qualcuno da bloccare per tenere ancora un po’ lontana la noia.
L’ombra, il riflesso nella pupilla di un oggetto lungo, pesante e scuro come una mazza ferrata e lo schizzo rapido di sangue. Il rumore sordo dell’osso che cede e il buio quello totale, quello raggelante eppure incredibilmente meno intenso di quello provato tutte le sere in completa solitudine.