mercoledì 9 giugno 2010

Sogno una valigia piena di libri


"Sogno una valigia piena di libri, pesante come la vita ma ricca di storie come solo i sogni sanno essere. Sogno una strada lunga, infinita come le curve e i rettilinei che la compongono. Un fuoco per scaldarmi di notte e una storia diversa ogni giorno che mi faccia viaggiare e raddoppiare le miglia che percorrerei consumando le scarpe. Sogno di scambiare la mia valigia con quella di altri viaggiatori dalle più disparate provenienze e lingue e dalle storie così diverse eppur unite da un unico filo conduttore quello dell’esistenza errante e nomade che mi farebbe perdere centinaia di volte prima di trovare il me stesso più nascosto senza avere più paura d’affrontarlo”.
Roberto Tasinato

martedì 11 maggio 2010

Iggy Pop - Lust For Life



lunedì 10 maggio 2010

I'm Free


Vai a lavorare, manda i figli a scuola, segui la moda, agisci normalmente. Cammina sul marciapiede, guarda la TV. Risparmia per la vecchiaia. Obbedisci alla legge.

Ripeti dopo di me: IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO IO SONO LIBERO ....

Viviamo nell'era della libertà fasulla. Della felicità artificiale. Siamo convinti di poter fare e dire quello che vogliamo perché ci hanno dato FACEBOOK. Molliamo tutto alla prima difficoltà o quando la nostra vita non assomiglia a quella della famiglia YEAh YEAH della pubblicità dei corn-flakes (io al mattino odio il mondo più che nel resto della giornata figurarsi se mi mangiassi cibo per galline cosa potrei fare...).

Eppure tutti siamo convinti di essere liberi, indipendenti, inarrestabili almeno fino alla prossima privazione, alla successiva censura e/o delusione quando per tirarci su corriamo a comprare i pantaloni stracciati di qualche stilista che in altre epoche o in altro contesto sarebbe rinchiuso per demenza.







martedì 21 agosto 2007

I desideri di un ubriaco sdraiato sui binari del tram numero 18

Guarda la luce
Dove dove?
Laggiù dritta di fronte a te !
E’ vero…è bellissima!
Sarà una stella cadente ?
Magari si, esprimi un desiderio
Si si ma non devo dirlo… vero?
Ma dillo sei solo che te ne frega
Voglio amare la vita !
Eccola, cazzo però è sempre più vicina
Mi sta accecando
Oh merde ma non è una stella!

Fine

martedì 3 luglio 2007

Verdana e Virginia




V e r d a n a. Sto scrivendo con il carattere verdana dimensione 11 su word. Chissà che origine ha il nome Verdana? Lo scopro subito, ormai con internet la curiosità irrisolta è un lusso per pochi. Cito da wikipedia: “Il Verdana è un font sans-serif altamente leggibile disegnato da Matthew Carter per la Microsoft Corporation. Il nome è stato scelto da Virginia Howlett del gruppo tipografico Microsoft, ed è costituito dall'unione di verdant (che indica qualcosa di verde, come ad esempio l'area di Seattle nello stato sempreverde ("Evergreen") di Washington) e Ana (il nome della figlia primogenita della Howlett).” Cioè se questa tipa avesse avuto un figlio di nome Ano adesso scriverei in Verdano se invece che allo stato sempreverde la Virginia Howlett si fosse ispirata allo stato dell’oro, la California, il carattere si sarebbe chiamato Goldana o Goldano. Casualità, tutto nasce dal caos che poi noi come diligenti formichine tendiamo a riordinare a razionalizzare.

Virginia Howlett, Virginia…Virginia è il nome di una ragazza di cui m’innamorai follemente 7 anni fa ma lei s’innamoro poi follemente di un ragazzo sardo e da allora odio la Sardegna.
Splendida (lei non quell’isola appena citata!).
Assomigliava in modo impressionante alla mia attrice, nonché icona, del cuore Audrey Hepburn ma con gli occhi azzurri. Si muoveva sinuosa ed elegante come la protagonista di Colazione da Tiffany intorno ai tavoli di un’enoteca dove lavorava all’epoca. Le mie serate già alquanto alcoliche divennero da quasi etilista quando compresi che per lei potevo essere un buon amico e nulla più. Mi ricordo che una sera uscì talmente sfatto dal locale che mi addormentai nell’auto parcheggiata poco distante e meno male perché non sarei davvero stato in grado di guidare nemmeno un triciclo. Mi risvegliai alle 10.30 di una Domenica mattina con le campane a messa di una chiesa lì vicino, un mal di testa lancinante e la bocca impastata da troppo Barbera e qualche cordiale di fine serata. Due ragazzi marocchini del quartiere (San Salvario) mi osservano curiosi mentre appoggiati a un muro sfumacchiavano e ridevano. Mi sentivo anche un po’ in colpa perché lei finiva pure per preoccuparsi per queste mie sortite bohemien autodistruttive, il che rendeva il tutto ancor più pietoso e davvero per niente dignitoso per il sottoscritto. In quegli anni avrei potuto prendere un diploma di Laurea in amori impossibili, in sbronze e in paranoie mentali. Però non rimpiango nulla. Mi sentivo un po’ artista (anche se non lo ero), un po’ Don Giovanni (men che meno) e un po’ sfigato (questo sì!). Non avevo particolari vincoli se non quello di non esagerare dal lunedì al venerdì perché per pagarmi l’affitto dovevo lavorare. I weekend erano una notte unica, bianca, interminabile eppur sempre breve. Entravo da Giancarlo in piena notte dopo un giro tra enoteche da scoprire, ragazze su cui sognare e strade piene di piscio e bottiglie di birra vuote, per poi uscirne al mattino con il sole che sorgeva e io seduto con il mio amico Sandro sullo scalino pre-fiume dei Murazzi. Oppure talvolta con qualche ragazza amore di poche ore, qualche bacio rubato alla notte prima che con essa svanissero anche le illusioni. E spesso da solo, da solo a guardare il monte dei Cappuccini e la Gran Madre piangendo un po’ sbronzo e un po’ triste…


“…I tried so hard
And got so far
But in the end
It doesn’t even matter
I had to fall
To lose it all
But in the end
It doesn’t even matter”

giovedì 7 giugno 2007

Il Grassone





Il grassone camminava dondolando su e giù per il lungo corridoio. Camminava e pontificava. Pontificava su tutto. Sulle donne, sul lavoro, sui soldi, sui giovani e sui vecchi. Le sue gambe erano due maiali, due agnelli da kebap. I suoi vestiti erano lisi e consunti, il suo aspetto trascurato ma non troppo. Era solo, il grassone, lo si vedeva dalla disperazione nei suoi occhi quando era ora di tornare a casa. Tornare nel suo appartamento ex casa popolare, acquistato dopo anni di solitudine e lavoro. Due camere e cucina. Arredamento disordinato e minimalista. Accostamenti raccapriccianti tra mobili in formica e vecchi complementi d’arredo in noce eredità di famiglia. Un frigo ventennale colmo di pre-cotti e buste d’affettati del discount.
Camminava davanti a me in mezzo agli uffici deserti. Le porte chiuse, le luci spente, i telefoni muti, l’assenza di ogni rumore anche quel fastidioso taccheggiare della segretaria del manager. Solo io e il grassone. Il mio incedere silenzioso alle sue spalle ed il suo ansimare disperato alla ricerca di qualcuno da ammorbare per concludere un’altra giornata prima di tornare alla solitudine. Prima di tornare alla tv, al telegiornale, ai commenti in solitaria delle notizie di cronaca, a fissare il telefono sperando nella telefonata di qualche vecchio amico di qualche lontano nipote.
Il grassone era ora di fronte all’ultimo ufficio, la mano corta e grassa sul pomello che non rispondeva alla pressione. Il suo voltarsi stancamente, il suo imprecare perché tutti a quell’ora erano già altrove, a casa con le loro famiglie, in palestra, al ristorante con gli amici, tutti, nessuno che come lui fosse lì a fare dell’inutile straordinario. Poi un lampo un sussulto nel vedermi. L’accenno di un sorriso, la piccola gioia di non scoprirsi solo. La voglia d’esternare, qualcuno da bloccare per tenere ancora un po’ lontana la noia.
L’ombra, il riflesso nella pupilla di un oggetto lungo, pesante e scuro come una mazza ferrata e lo schizzo rapido di sangue. Il rumore sordo dell’osso che cede e il buio quello totale, quello raggelante eppure incredibilmente meno intenso di quello provato tutte le sere in completa solitudine.

giovedì 24 maggio 2007

La scimmia dalle mutande firmate




La scimmia dalle mutande firmate si aggirava con il grugno tutto serio per i corridoi del settore dov’era stata assegnata. La scimmia non produceva nulla se non pettegolezzi bisbigliati a bassa voce a chi li dava retta. Purtroppo molti. La scimmia era una serva del potere quello più meschino e ruffiano, quello dei furbi insomma in poche parole il potere all’italiana. La Mafia d’altronde non avrebbe potuto nascere se non nel bel paese.
La scimmia teneva molto alla sua immagine, forse per compensare quel brutto grugno, quella ostentata maleducazione nei confronti di chi da scimmia lo trattava. Nulla era lasciato al caso, le mutande dovevano essere intonate con il calzino e la cravatta doveva ben infiocchettare il cervello così cretino.
Quello che più stupiva è che molte delle persone che assecondavano la scimmia e spesso se la portavano come compagnia a spasso, a pranzo o anche solo per un caffè erano soggetti spesso insospettabili. Non dei geni magari ma neanche degli allocchi. Quasi quasi umani. Ed invece anche loro si sollazzavano delle chiacchiere della scimmia con le sue belle mutande firmate, con i suoi atteggiamenti impostati e davvero un po’ ridicoli.
Eppure la scimmia una funzione sociale la svolgeva era un evidenziatore naturale delle personalità altrui o meglio delle non personalità.
La scimmia guidava il branco giù per il baratro ma sembravano tutti gradire quel rovinare giù per il pendio dietro un bel paio di mutande firmate.