martedì 3 luglio 2007

Verdana e Virginia




V e r d a n a. Sto scrivendo con il carattere verdana dimensione 11 su word. Chissà che origine ha il nome Verdana? Lo scopro subito, ormai con internet la curiosità irrisolta è un lusso per pochi. Cito da wikipedia: “Il Verdana è un font sans-serif altamente leggibile disegnato da Matthew Carter per la Microsoft Corporation. Il nome è stato scelto da Virginia Howlett del gruppo tipografico Microsoft, ed è costituito dall'unione di verdant (che indica qualcosa di verde, come ad esempio l'area di Seattle nello stato sempreverde ("Evergreen") di Washington) e Ana (il nome della figlia primogenita della Howlett).” Cioè se questa tipa avesse avuto un figlio di nome Ano adesso scriverei in Verdano se invece che allo stato sempreverde la Virginia Howlett si fosse ispirata allo stato dell’oro, la California, il carattere si sarebbe chiamato Goldana o Goldano. Casualità, tutto nasce dal caos che poi noi come diligenti formichine tendiamo a riordinare a razionalizzare.

Virginia Howlett, Virginia…Virginia è il nome di una ragazza di cui m’innamorai follemente 7 anni fa ma lei s’innamoro poi follemente di un ragazzo sardo e da allora odio la Sardegna.
Splendida (lei non quell’isola appena citata!).
Assomigliava in modo impressionante alla mia attrice, nonché icona, del cuore Audrey Hepburn ma con gli occhi azzurri. Si muoveva sinuosa ed elegante come la protagonista di Colazione da Tiffany intorno ai tavoli di un’enoteca dove lavorava all’epoca. Le mie serate già alquanto alcoliche divennero da quasi etilista quando compresi che per lei potevo essere un buon amico e nulla più. Mi ricordo che una sera uscì talmente sfatto dal locale che mi addormentai nell’auto parcheggiata poco distante e meno male perché non sarei davvero stato in grado di guidare nemmeno un triciclo. Mi risvegliai alle 10.30 di una Domenica mattina con le campane a messa di una chiesa lì vicino, un mal di testa lancinante e la bocca impastata da troppo Barbera e qualche cordiale di fine serata. Due ragazzi marocchini del quartiere (San Salvario) mi osservano curiosi mentre appoggiati a un muro sfumacchiavano e ridevano. Mi sentivo anche un po’ in colpa perché lei finiva pure per preoccuparsi per queste mie sortite bohemien autodistruttive, il che rendeva il tutto ancor più pietoso e davvero per niente dignitoso per il sottoscritto. In quegli anni avrei potuto prendere un diploma di Laurea in amori impossibili, in sbronze e in paranoie mentali. Però non rimpiango nulla. Mi sentivo un po’ artista (anche se non lo ero), un po’ Don Giovanni (men che meno) e un po’ sfigato (questo sì!). Non avevo particolari vincoli se non quello di non esagerare dal lunedì al venerdì perché per pagarmi l’affitto dovevo lavorare. I weekend erano una notte unica, bianca, interminabile eppur sempre breve. Entravo da Giancarlo in piena notte dopo un giro tra enoteche da scoprire, ragazze su cui sognare e strade piene di piscio e bottiglie di birra vuote, per poi uscirne al mattino con il sole che sorgeva e io seduto con il mio amico Sandro sullo scalino pre-fiume dei Murazzi. Oppure talvolta con qualche ragazza amore di poche ore, qualche bacio rubato alla notte prima che con essa svanissero anche le illusioni. E spesso da solo, da solo a guardare il monte dei Cappuccini e la Gran Madre piangendo un po’ sbronzo e un po’ triste…


“…I tried so hard
And got so far
But in the end
It doesn’t even matter
I had to fall
To lose it all
But in the end
It doesn’t even matter”

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